L’ISTAT dice che nel 2015 oltre il 70% dei ragazzi fino ai 29 anni vive ancora in famiglia. L’ISTAT dice anche che nella fascia di età 30-34 solo 1 italiano su 5 ha completato i riti di passaggio alla vita adulta https://twitter.com/marcobenadusi/status/730760858700238849: finire gli studi, lavorare, vivere con il partner, avere un figlio.
Questi dati mi hanno folgorato e mi portano a pubblicare le parole sferzanti di Luca Ricolfi nel suo meraviglioso “L’enigma della crescita”(Mondadori 2014):
“Nei paesi sviluppati il benessere di base delle famiglie, fatto di alti redditi e cospicui patrimoni accumulati lungo le generazioni, è oggi così ampio che consente un’attitudine verso lo studio, il lavoro e il guadagno del tutto diversa dal passato, e comunque diversa da quella dei paesi inseguitori.
Nessuna società ha ancora risolutamente imboccato la strada immaginata da Keynes, quella di una drastica riduzione del tempo di lavoro a favore del tempo libero, ma qualcosa sta già andando, anzi è già andato in quella direzione. Se per esempio anziché l’orario di lavoro in una giornata tipo consideriamo il quantum di lavoro erogato dal cittadino medio nell’arco della sua vita, non possiamo non notare che la quota di tempo dedicata al lavoro si è enormemente ridotta. Oggi molti giovani iniziano a lavorare dopo i 30 anni, mentre diversi sistemi pensionistici consentono (o consentivano fino a pochi anni fa) un ritiro dal lavoro intorno ai 60 anni, a fronte di una speranza di vita cresciuta in modo spettacolare dai tempi di Keynes. (…)
Nel giro di un secolo il tempo di lavoro medio della popolazione è approssimativamente passato dal 35% al 20%, sostanzialmente in linea con le previsioni di Keynes, che immaginava un dimezzamento del tempo di lavoro entro il 2030.
Pensiamo ai giovani dei ricchi paesi del Nord, o anche a quelli di paesi mediterranei come l’Italia e la Spagna. Una pubblicistica piuttosto ripetitiva e impregnata di luoghi comuni li dipinge da anni come una generazione perduta, un esercito di disoccupati senza futuro e senza speranza Ed effettivamente il lavoro non si trova. Ma c’è anche un altro modo di descrivere le cose. Nelle società “arrivate” la maggior parte dei giovani usufruiscono per la prima volta nella storia di un triplice privilegio.
Innanzitutto sono liberi di studiare poco e male dedicando le loro migliori energie al divertimento (…)
In secondo luogo possono prolungare indefinitamente il periodo degli studi, ritardando così l’ingresso nel mercato del lavoro, in alcune società ben oltre i 30 anni (…)
Infine una volta entrati sul mercato del lavoro possono ritardare di anni e anni l’inizio di una vera carriera lavorativa. Essi non cercano un lavoro qualsiasi, ma un lavoro che sia all’altezza delle loro aspirazioni, o delle competenze che ritengono di aver acquisito negli anni dello studio (…)
Gli aumenti del PIL per abitante non dipendono solo dalle tecnologie adottate, ma anche – se non soprattutto – dalla spinta (si può dire così?) che gli abitanti di un paese intendono imprimere alle loro vite. E’ innanzitutto tale spinta che è venuta a mancare nei paesi ricchi.
Amen
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