Lo sciopero dei lavoratori del centro di distribuzione di Amazon del 24 novembre ha imperversato sulle prime pagine dei giornali. Per i media è stato facile presentarlo come la versione postmoderna dello scontro sindacale, quello che nasce attorno ad una piattaforma digitale.
Effettivamente quanto è accaduto racconta molto bene come le relazioni industriali siano ormai lontanissime dalle logiche novecentesche a cui eravamo abituati.
Nella nostra economia, deindustrializzata da un lato e perfettamente inserita nella competizione globale dall’altro, il rapporto di forza tra sindacati e grandi aziende private è ormai strutturalmente sbilanciato: milioni di italiani hanno seguito la notizia dello sciopero al telegiornale e non hanno commentato “guarda questi mascalzoni, guadagnano miliardi e pagano poco i lavoratori“. Hanno commentato invece “Magari ce l’avessi io un contratto e uno stipendio così”.
Il numero di adesioni alla protesta (60% secondo i sindacati e 10% secondo l’azienda) e l’esito dello sciopero (servizio perfettamente garantito ai clienti e tavolo di confronto rimandato al 2018) ci rivelano che nel 2017, poichè il lavoro ha perso il connotato ideologico politico che aveva rivestito nel novecento, prevale la regola brutale dei rapporti di forza: ”Vuoi lavorare qui? Nel rispetto della legge le condizioni che offro sono queste. Non mi chiedere di più, se no me ne vado a offrire lavoro da un’altra parte“.
Ormai in Italia le iniziative sindacali/corporative conservano una loro incisività solo quando il datore di lavoro è pubblico (taxi, trasporti locali, sanità, ecc. ) o le dimensioni dell’azienda talmente importanti da implicare un interesse pubblico (i casi Alitalia o ILVA per esempio). Per il resto, come accaduto per i 4000 operatori di Piacenza resta un po’ di traffico sui social, qualche diretta tv e poco altro.
E il sindacato? Condannato alla subalternità? I fatti di Amazon sembrano dirci ancora una volta chiaramente che i sindacati hanno una straordinaria opportunità, a patto che riconsiderino la loro missione: occuparsi della vita dei lavoratori, non della vita dei lavoratori in una determinata azienda. Difendere la capacità di lavorare, l’occupabilità delle persone, non il posto di lavoro. Ciò che osserviamo invece è che i sindacati si comportano ancora come se i posti di lavoro fossero potenzialmente eterni, quando ormai sappiamo che hanno una durata limitata, a prescindere dalla natura dei contratti, perché sono rimessi continuamente in discussione dalla competizione globale e dalla tecnologia.
In tempi così difficili avremmo bisogno di un sindacato capace di guidare le persone alla comprensione della realtà: “Formati, studia, riqualificati, trova una collocazione che esalti le tue competenze, preparati a cambiare lavoro prima di essere costretto a farlo“. Questo è quello che il sindacato dovrebbe trasmettere al lavoratore, da adulto ad adulto. E invece incredibilmente lascia che siano le aziende a impostare questo dialogo adulto con i lavoratori, preferendo dedicarsi alla solita narrazione illusoria e infantile (“Questo lavoro ti spetta e sarà tuo per sempre“).
Il caso di Amazon è emblematico. Chi entra in Amazon sa che dopo circa 5 anni di servizio l’azienda gli proporrà di andar via con un bell’assegno. Non solo. Chi lavora in Amazon può scegliere dei corsi di formazione e vederseli finanziati per il 95% dall’azienda (il progetto si chiama “Career Choice”). Il messaggio è spietato quanto trasparente: “Non vorrai mica passare la tua vita a fare il facchino dietro ai nostri pacchi? Tra qualche anno sarai stanco e annoiato e ci sarà qualcuno più giovane di te e con più energia, forse sarà addirittura un robot. Noi ti pagheremo per andare via e scegliere qualcosa di migliore per te. Per questo da subito ti offriamo la formazione che ti servirà per trovare la tua strada”.
Questo discorso da adulto ad adulto non ce lo dovrebbe fare un’azienda americana che fattura miliardi. Ce lo dovrebbero fare la scuola, la politica e il sindacato. Tutti presenti quando c’è da protestare. Tutti assenti quando i megafoni e i post sui social spariscono e restiamo da soli a guardarci allo specchio e a dirci “e io adesso che faccio”.
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