Empatia, portami via

Un tempo la divisione del lavoro nelle grandi organizzazioni (dalla vecchia fabbrica fondista all’impiegato di concetto “fantozziano”) era tale per cui si poteva far bene il proprio dovere a prescindere dalle proprie abilità comunicative e relazionali. Mansioni più parcellizzate (“io faccio questo tu fai quello”), scarsa integrazione tra reparti e funzioni, gerarchie rigide, scarsa responsabilizzazione dei singoli, contatti con i clienti finali molto mediati. Nelle aziende di una volta non c’erano i “project manager” e i “team interfunzionali”, non ci si aggiornava di continuo via mail e non si partecipava a cinque riunioni al giorno. Essendo le organizzazioni “comunità di uomini e donne” le abilità relazionali erano ovviamente apprezzatissime e decisive nei percorsi di carriera. Tuttavia si poteva lavorare bene anche senza eccellere nell’arte di “star bene con gli altri” e di comunicare. Per motivi diversi allo stesso risultato si arrivava nelle attività artigianali e professionali: I clienti di un notaio o di un falegname giudicavano soprattutto la qualità del servizio e del prodotto. Nella loro percezione di valore il “mi ha trattato bene/è stato gentile/disponibile/mi ha ascoltato” era molto meno importante di quanto sia oggi. Stesso dicasi per medici e professori, di cui una volta si diceva soprattutto “è preparato”, oggi sempre più spesso “è empatico”.

Con rare eccezioni professionisti, manager e imprenditori di successo oggi sono eccellenti comunicatori. Sanno ascoltare, sanno spiegarsi, sanno offrire agli altri comprensione e stimoli positivi. Queste competenze che i leader sviluppano al massimo livello, ormai non sono più un “quid pluris”, un qualcosa che fa la differenza, richiesto solo a pochi eletti. Sono semplicemente il corredo necessario per fare bene il lavoro che si fa, a tutti i livelli, in tutti i settori.

Il lavoro del futuro richiederà un crescente numero di interazioni con un crescente numero di interlocutori (clienti, colleghi, partner). I nostri figli dovranno sul lavoro condividere, negoziare, ascoltare più di quanto stiamo facendo noi, sicuramente molto di più di quanto hanno fatto i nostri genitori. Dovranno insomma diventare dei bravi “gestori di relazioni”, e rispondere all’identikit di quelle persone di cui si dice “ci sa fare con le persone”.

Essere uno che “ci sa fare con le persone” significa poter chiedere uno sforzo in più, al collega, al cliente o al collaboratore, gestire in modo costruttivo incomprensioni e resistenze, ottenere dai propri interlocutori più tempo e più attenzione, in un’epoca in cui tempo e attenzione sono risorse scarsissime.

In fin dei conti questa centralità delle cosiddette “soft skills” (l’insieme delle competenze sociali e comunicative) la imponiamo noi tutti i giorni quando ci risentiamo con il collega che ha usato una parola troppo dura, quando pretendiamo che il professore si approcci in modo più comprensivo ai problemi di nostro figlio, quando scriviamo una recensione acida su un ristorante dove il cameriere si è lasciato sfuggire un commento di troppo, quando ci inalberiamo con il tipo del call center che ci ha liquidati troppo sbrigativamente. Siamo più permalosi e suscettibili dei nostri genitori e i nostri figli lo sono più di noi. Così tutti i giorni “votiamo” con la pancia i comportamenti e il lavoro di chi ha suscitato in noi emozioni positive, spesso prescindendo dal merito di quei comportamenti e di quel lavoro. Abbiamo in sostanza un bisogno di empatia molto più forte di una volta. Gli psicologi e i sociologi ci diranno il perché.

One Comment

  1. Andrea said:

    Concetto interessante.
    Comunicare in maniera efficace è oggi sempre più fondamentale!

    29 luglio 2015
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