Un centimetro alla volta, in Italia come nel resto del mondo, il lavoro cambia inesorabilmente. Piccole impercettibili trasformazioni che messe insieme compongono il quadro di una vera rivoluzione. Dopo il jobs act e la sorprendente sentenza della cassazione di cui ho parlato in questo articolo (https://www.linkedin.com/pulse/licenziare-per-profitto-lorenzo-cavalieri), due giorni fa si è consumata una nuova tappa di questa “rivoluzione silenziosa”: il contratto ibrido. Prima di spiegare cos’è il contratto ibrido provo a dire in tre punti cosa sta succedendo nel mondo del lavoro:
1) nel mondo della competizione tecnologica globale le aziende stanno in piedi se riescono a competere attraverso la piena efficienza. Per competere hanno assoluto bisogno che i lavoratori a tutti i livelli siano produttivi. Un lavoratore non produttivo diventa un costo non sostenibile, per la grande banca come per la piccola azienda o il laboratorio artigianale;
2) Software, robot e intelligenza artificiale sostituiscono l’uomo in tutte le attività lavorative di tipo esecutivo/ripetitivo/programmabile;
3) I lavoratori sostituiti dalla tecnologia vengono spostati verso mansioni di relazione/gestione/contatto con la clientela. Se al supermercato c’erano 10 lavoratori in cassa, oggi che la cassa la fa la tecnologia 5 lavoratori vengono mandati a casa e 5 vengono riconvertiti in ruoli di consulenza/supporto commerciale.
Quali sono le conseguenze di questi 3 fenomeni?
1) Le aziende scoprono che nei lavori che hanno una dimensione commerciale/relazionale è relativamente facile misurare la produttività;
2) Le aziende cercano di creare dei meccanismi retributivi che “seguano” la produttività: “se i tuoi risultati sono buoni ti pago di più, se non sono buoni ti pago di meno”. Detta in altri termini le aziende cercano di trasformare il lavoro il più possibile in un “costo variabile”;
3) Le aziende scoprono che i lavori non sostituibili dalla tecnologia richiedono formazione, motivazione, impegno responsabile e che dunque non è possibile fondare il rapporto di collaborazione unicamente su uno schema opportunistico del tipo “ti pago per quello che produci”. In questo modo infatti verrebbe meno il rapporto fiduciario e con esso verrebbero meno formazione, motivazione e impegno responsabile.
Da questo bisogno di contemperare il bisogno del lavoro come costo variabile (“ti pago solo se sei produttivo”) e il bisogno del lavoro come impegno responsabile di persone ben formate e motivate nasce l’ultima rivoluzione silenziosa del mercato del lavoro italiano: il contratto ibrido.
Cos’è? Un contratto da dipendente a tempo indeterminato part time + un contratto di collaborazione in regime di lavoro autonomo con la partita IVA. Si badi bene, parliamo di 2 contratti per la stessa persona, nei confronti del medesimo datore di lavoro. Il primo esperimento è stato lanciato con un accordo sindacale in Banca Intesa due giorni fa: http://www.repubblica.it/economia/2017/02/02/news/mezzo_promotore_e_mezzo_dipendente_arriva_il_bancario_ibrido_-157434635/?rss
I promotori finanziari saranno dipendenti per parte del loro tempo di lavoro e lavoratori autonomi con partita IVA per la parte restante. In questo modo la banca offrirà la sicurezza di uno stipendio e del welfare ad esso associato (assistenza, previdenza, ecc.), ma potrà beneficiare ampiamente anche dell’effetto “ti pago per quello che produci”, grazie al meccanismo provvigioni-partita IVA.
Forse resterà un esperimento contrattuale concepito in un momento drammatico per il sistema bancario italiano. Forse sarà stroncato dai sindacati, dalla giurisprudenza e dalla dottrina giuslavoristica. Ma per come sta “soffiando il vento”, anche fuori dal mondo bancario, esiste la possibilità che il contratto ibrido possa diventare nel bene o nel male un modello contrattuale di successo per centinaia di migliaia di agenti, venditori, commessi, consulenti commerciali, operatori di call center. Lo scopriremo molto presto.
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