I giudici della Corte di Cassazione hanno riconosciuto che i rider di Foodora hanno diritto ad essere trattati alla stregua di lavoratori dipendenti. E’ una sentenza destinata a lasciare il segno nella interpretazione giuridica di quei mestieri, figli del terzo millennio, di cui non si riesce a definire compiutamente la natura: lavoro subordinato o lavoro autonomo?
Parliamo di ciclofattorini e di tutti i lavoratori della cosiddetta Gig Economy, recentemente rappresentati dal bellissimo film “Sorry, we missed you” di Ken Loach: consegne con un camioncino, pagati a cottimo, nessun vincolo di subordinazione, senza importanti protezioni legali e assicurative.
Questa sentenza e questo film rappresentano un’ottima occasione per una riflessione semplice ed essenziale sul fenomeno dell’economia dei lavoretti. Riassumo la mia posizione in cinque parole: Sono lavoretti e non lavori. Se non tracciamo una linea di demarcazione chiara che distingua i due concetti (lavori e lavoretti) rischiamo da un lato di illudere e impoverire le persone, dall’altro di danneggiare un modello di business che risponde a dei bisogni di mercato ma che ha naturalmente bisogno di marginalità reddituali per stare in piedi.
Tipicamente questo tipo di lavoretti “alla Uber” rispondono alle seguenti tre caratteristiche:
- Il lavoratore viene pagato a cottimo, un tot per “pezzo” prodotto o consegnato;
- Il lavoratore è autonomo nel gestire il tempo da dedicare all’attività;
- Il lavoratore non ha bisogno di usare mezzi o spazi aziendali.
E’ chiaro che se un lavoratore dedica tutto il suo tempo a questa attività, può arrivare a garantirsi livelli di reddito paragonabili a quelli di un lavoro dipendente “standard” full time. E’ qui sorge la possibile confusione tra lavoro e lavoretto. Un lavoretto è tale perché ciò che ti porta a guadagnare è un’azione o una serie di azioni che non hanno nessun valore ulteriore rispetto al valore del mero sforzo fisico. E’ come raccogliere pomodori. Non occorre nessuna competenza per farlo e non si sviluppa nessuna competenza facendolo. Inoltre non fa nessuna differenza che i pomodori vengano raccolti da Luigi o da Nicola. Questi lavori sono naturalmente esposti al fenomeno del caporalato. Con la Gig Economy per la verità è inappropriato parlare di capolarato, anche se in effetti si tratta di modelli di business che stanno in piedi solo se il costo del lavoro è portato al limite estremo ed è sempre perfettamente coerente con i flussi di cassa.
In definitiva se il ciclofattorino decide di vivere di quell’attività fa un danno a sé stesso perché accetta di guadagnare molto male, impegnandosi senza alcun ombrello protettivo in un ambito lavorativo che non potrà mai dargli prospettive di crescita. E’ la trappola della povertà: procurarsi il minimo per vivere senza creare i presupposti di uno sviluppo professionale decoroso e adeguato all’invecchiamento fisico e alla maturazione mentale della persona. Inoltre il lavoratore che si impegna full time nella Gig Economy impone di fatto alle aziende di cambiare modello di ingaggio contrattuale (come ha affermato la Cassazione) e quindi di perdere redditività e ragion d’essere. In conclusione ci perdono tutti.
Non c’è bisogno di criminalizzare i “lavoretti”, di definirli come è stato fatto “il latifondo digitale”. Non serve neanche trasformare ex lege il gig worker in un dipendente, perchè alla lunga il modello di business non starebbe in piedi.
Occorre più semplicemente considerare “i lavoretti” per ciò che sono: uno strumento con cui si “arrotonda”, un impegno da confinare in poche ore alla settimana, senza pregiudicare il tempo necessario a coltivare il proprio progetto di vita attraverso lo studio per un giovane o attraverso la riqualificazione per chi sta cercando un “vero lavoro” e vive con il reddito di cittadinanza o il sostegno familiare.
Occorrerebbe quindi trovare una via normativa per impedire alle persone di trasformare il lavoretto in “lavoro vero”. Potrebbe essere imposto un vincolo al numero di ore impiegate da ciascun lavoratore sulla piattaforma per esempio. Giuristi e politici potrebbero mettere da parte le dispute ideologiche e trovare una quadra normativa creando un sistema di sanzioni ed incentivi che impedisca ai lavoratori di diventare gig worker full time, e che riconosca alle aziende il diritto di trattare i lavoratori da lavoratore autonomi, versando però come contropartita dei fondi per la loro formazione/qualificazione/riqualificazione: “Continuo a pagarti a cottimo, con un minimo di garanzie, ma ti impedisco di lavorare per me oltre un numero tot di ore. Addirittura ti offro a spese mie (almeno in parte) dei percorsi per qualificarti o riqualificarti in modo da trovare un lavoro vero”. Chissà che non si riesca prima o poi a trovare la strada di un compromesso così virtuoso.
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